ANIME E VISIONI: LA MAGIA DI PITAGORA A SPAZIOTEATRO CON ERNESTO ORRICO
Uno spettacolo ancestrale quanto riconoscibile
di Katia Colica
su sound36.com
Noi c’eravamo. Proprio noi, pubblico del terzo millennio, spaccati in individualità
e ossessioni; persino in esibiti virtuosismi: da qualche parte c’eravamo. Mentre il
Maestro narrava di anime e Universo, di numeri che marcano regole e
d’improvviso divengono energie; lì, mentre l’allievo buono Euphemos raccontava
con indulgenza di quando l’aveva visto “chinarsi sull’asino caduto e abbracciarlo
e piangere con lui”. O quando Aigon, l’allievo cattivo, urlava di chiudere i porti
guidando lo sterminio dei pitagorici. Perfino mentre lo stesso Maestro incitava i
krotoniati ad affondare i Bronzi ravvisandone quella bellezza che parla di guerra.
Così La fuga di Pitagora lungo il percorso del sole, scritto da Marcello Walter
Bruno e portato in scena da un magistrale Ernesto Orrico , non lascia scampo
agli spettatori. Li prende per mano con un avvio soffuso, seducente diremmo, e
li cattura dentro uno spettacolo ancestrale quanto riconoscibile. Una gabbia che
buca il tempo e lo spazio, che si espande facendo diventare la saletta di SpazioTeatro a Reggio Calabria – che ha ospitato lo spettacolo nella sua
rassegna teatrale “La casa dei racconti” – un non-luogo capace di una narrazione
visionaria.
Orrico alterna i personaggi con diverse soluzioni: l’uso sapiente e mai caricato
della voce, la maschera, un essenziale cappuccio che copre o scopre, l’efficace
gestualità delle mani.
Non gli importa di creare facili similitudini con il contemporaneo: la chiusura dei
porti, l’indipendenza delle donne, la repressione del diverso. La potenza dello
spettacolo, fatto salvo il timbro contemporaneo, esplode nella naturalezza dei
cicli che si ripetono, dentro il regolare ritorno di anime che viaggiano nei corpi di
animali, di persone, o dentro le parole che assumono la forma di bellezza, odio,
rancore, pietà.
Il nome di Pitagora non compare mai nel testo e Orrico , per esprimerlo
luminoso e concreto, trova percorsi scenico-narrativi che lo proiettano sul palco
assieme ai personaggi che con lui prendono forma come in una trasmigrazione
energica, moltiplicando la stessa teoria della reincarnazione che, ecco, prende
vita.
Il Polilogo in 10 numeri è fluido, mai spezzato, grazie anche a una magica
sospensione regalata dalle musiche di Massimo Garritano che completa
armonicamente lo spettacolo senza mai diventare semplice sottofondo. Anche
la voce fuori campo di Ada Roncone in una Philtys presente e vibrante,
contribuisce a realizzare una rappresentazione che sfiata, come la valvola di una
pentola a pressione, nell’ultimo personaggio: un attore che incarna
millimetricamente, come ogni professionista delle scene, quel miracolo del
ritorno, del già detto, del già vissuto. In un virtuoso déjà-vu che ci regala –
spettatori, umani, animali o semplicemente anime – lo stacco gentile da una
performance emotivamente incantevole.
foto di Marco Costantino
05 /FEBBRAIO 2020
Ernesto Orrico: Pitagora pacifista? La disciplina della tolleranza
di Marta Maria Cirello
su LE NOTTOLE DI MINERVA
Rivista di critica teatrale universitaria
Sulla Togliatti, proprio dietro Cinecittà, c’è un posto che vuole fare resistenza, in un quartiere non semplice della capitale. E, a entrarci, pare di essere tra conoscenti, le pareti tutte arancioni, le persone chiacchierano e sorseggiano del vino. Quest’isola è l’Accademia Popolare dell’Antimafia e dei Diritti. Si fa teatro, lì dentro, ma non solo. Ci si incontra prima, in questo foyer «pieno di gente che noi chiamiamo amici», dice il direttore artistico Rosario Mastrota.
Siamo stati all’inaugurazione della stagione teatrale, ÀP Teatro, appunto. Si è parlato di pacifismo, durante un aperitivo pre-spettacolo, insieme a Giulio Marcon, ex deputato ed esponente del movimento pacifista. La riflessione sull’attivismo della pace non viene spesso stimolata, per questo l’ascolto è stato attento. Tutto coerente con la missione civile portata avanti dall’Associazione DaSud in collaborazione con la Compagnia Ragli in questo spazio (qui la nostra intervista).
Ernesto Orrico ha messo in scena La fuga di Pitagora lungo il percorso del sole, in anteprima, insieme al musicista Massimo Garritano, un testo di Marcello Walter Bruno. La scena vuota, un uomo incappucciato, simile a un monaco, dice tantissime parole, in controluce, e dei suoni creano un’atmosfera sospesa. Non si sa dove, né quando, e se non fosse per il titolo non si capirebbe subito nemmeno chi. Parla di numeri, di anime, che abbandonano i corpi e poi ritornano, limitate nel numero e infinite nel loro ritorno. Parla di una terra, la Calabria, e di allievi. Man mano che ci si sintonizza queste parole cominciano a essere più chiare. È il maestro, Pitagora, che spiega le ragioni della tolleranza verso ogni essere che abita la terra. Ma anche il migliore dei maestri ha un allievo ribelle, riottoso persino, che si palesa al pubblico con un improvviso cambio di luce e di costume – ora vediamo il volto dell’attore – che si mostra insofferente a tutta l’armonia predicata dal filosofo.
I circa sessanta minuti si articolano in questo agone: la non violenza delle ragioni pitagoriche da un lato, l’ira nazionalista dell’allievo dall’altro. E dentro a questa discussione, che si interrompe e riprende e cambia punti di vista e toni, l’autore proietta piccoli pezzetti di storia dell’oggi, le migrazioni in primis, l’identità di un popolo. «Questa materia antica parla della nostra contemporaneità mediterranea» e lo fa con il linguaggio del filosofo e del matematico. Il personaggio che tutti noi ricordiamo per il teorema del triangolo rettangolo viene raccontato nella sua tolleranza, nel suo essere un pacifista, perché tutto è riconducibile al numero, tutti siamo uno, l’uno genera tutti i numeri, i numeri generano armonia.
Il Festival Miti Contemporanei regala una domenica ricca di emozioni
Performance di danza del Belletto di Roma tra i dipinti della Pinacoteca e lo spettacolo "Ver Sacrum"con Manolo Muoio. Mercoledì la chiusura della kermesse con "La Tempesta"
su
Reggio Today
Proseguono gli eventi del Festival più atteso per gli amanti dell’arte a 360 gradi. È stata, infatti, una domenica ricca di emozioni, quella appena trascorsa e che rientra tra gli appuntamenti del Festival Miti Contemporanei. Un inedito momento culturale ha animato, nel pomeriggio, le sale della Pinacoteca Civica, teatro per un giorno, di uno spettacolo di danza.
Le opere d'arte non solo sfondo, ma coinvolte, come fonte di ispirazione, materia da cui trarre linfa, per una performance di grandissima intensità. Due giovani danzatori della Compagnia Balletto di Roma, immersi, come il pubblico suddiviso in tre turni, in un'atmosfera quasi magica: Giulia Strambini e Paolo Barbonaglia - sulla musica (creata da Riccardo Joshua Moretti) evocativa, tra classicità e modernità, e grazie alla coreografia di Valerio Longo - costruiscono emozioni, unendo la tecnica perfetta alla sinuosità di movimenti che sembrano fondersi con il mondo circostante.
L'arte non resta staticamente esposta ma, per un pomeriggio, sembra vivere ancor di più attorno a quei movimenti, alle storie, all'incontro di anime che emerge dal racconto in danza dei due giovani, e diventa tutt'uno con i protagonisti, come in un continuo rimando tra performance dal vivo e quadri. Ed è qualcosa che non può che coinvolgere il pubblico, anch'esso parte di questo momento: così vicino da sentire l'emozione di quei passi, di quei movimenti, di quel racconto.
"L'albero dei sogni", la performance proposta, ha al centro dell’ispirazione, appunto, "l’immagine dell’albero, simbolo di vita e appartenenza, ideale strumento di raccordo tra la terra, l’umanità e il cielo", e si inserisce nel più ampio progetto "Reveals" che il Balletto di Roma ha avviato 2016 e che mira a portare, appunto, la danza in luoghi non convenzionali, interagendo e traendo ispirazione da essi.
Tra il pubblico presente ieri, anche Irene Calabrò, assessore al patrimonio storico-artistico-archeologico-paesaggistico del Comune di Reggio Calabria, che ha voluto evidenziare ancora una volta la comunione di intenti tra Comune e Festival, nell'ottica della valorizzazione dei beni culturali e artistici cittadini: "Questa iniziativa è in linea con la valorizzazione del patrimonio culturale che, come amministrazione, abbiamo portato avanti ed è positivo che l'obiettivo di un festival si sposi con quello di un'amministrazione pubblica. Vorrei sottolineare il tema del ricordo: con questa iniziativa si creano due ricordi, quello dell'evento, del balletto, e quello del luogo in cui è stato realizzato. E questo significa valorizzare il patrimonio culturale".
Altro grande momento, quello che ha visto, in serata, andare in scena, al Cine Teatro Metropolitano, la prima nazionale dello spettacolo "Ver Sacrum - La crociata dei bambini", di e con Manolo Muoio. Un intenso racconto, che trae spunto da "La crociata dei bambini" di Marcel Schwob e dalla storia del pifferaio di Hamelin, ma che, soprattutto, le rilegge in una chiave contemporanea, sia stilisticamente, che di contenuti.
Un racconto che non può prescindere dai riferimenti all'attualità, all'emigrazione e alle morti in mare. Ed è un susseguirsi in scena di sette quadri, che si intrecciano, che danno diverse prospettive e da cui emerge la potenza del racconto stesso, che scuote e diventa memoria, tra storia, leggenda e, appunto, attualità.
Il tutto grazie alla grande forza scenica di Manolo Muoio, interprete eclettico che utilizza voce, corporeità, intensità della narrazione, scelte sceniche e drammaturgiche per arrivare a trasferire al pubblico la potenza del testo: la recitazione di spalle, in alcuni momenti, in cui la voce e la parola - come negli esempi dei grandi del teatro contemporaneo - diventano strumenti dirompenti; le scene, come quella iniziale, di grande impatto, in cui la corporeità dell'artista dà vita ad oggetti evocativi, creando metafore e rimandi che colpiscono immediatamente; o l'uso delle immagini, che scorrono alle spalle del protagonista, quasi inglobandolo, mai sovrastando, ma divenendo forti echi dell'oggi.
Una drammaturgia che unisce, dunque, mito e contemporaneità, attraverso la prova di Manolo Muoio che si conferma, con questo spettacolo (vincitore del bando per singolo artista di Miti Contemporanei), uno degli attori e autori calabresi più innovativi e talentuosi della scena italiana.
Il Festival si avvia, quindi, alla conclusione con un grande evento: mercoledì 4 dicembre, alle ore 21, al Teatro "Cilea", l'attesa prima regionale de "La Tempesta" di Shakespeare, nella versione di Luca De Fusco. Una produzione del Teatro Stabile di Napoli che si avvale delle interpretazioni di alcuni tra gli attori più importanti del teatro contemporaneo, come Eros Pagni e Gaia Aprea, e di un imponente allestimento scenico che sottolinea l'innovativa lettura drammaturgica.
Talknoise
di Vittore Baroni
su Blow up
Sulla strada aperta nei '90 dai Massimo Volume e dissodata il decennio successivo dagli OftalgaDiscoPax, non sono pochi i progetti nostrani nati all'insegna di uno spoken word "indie". In ques'ottica, se l'intensità declamatoria dell'iniziale Un Canto può richiamare le intonazioni più virulente di Emidio Chimenti e il composto autobiografismo di Se può evocare l'ironia retrò di Max Collini, la poetica di Talknoise da Cosenza, Ernesto Orrico (voce) e Massimo Garritano (chitarra), possiede caratteri comunque del tutto personali.
A partire dalla formula, un dialogo intimo e essenziale tra le variegate improvvisazioni e distorsioni di stampo avant-jazz-noise della chitarra e una recitazione schietta ed emotiva che si spinge a tratti sul limite del cantato, senza sottrarsi a passaggi teatrali quasi gridati in testi crudi come PPP, sulla fine di Pasolini.
Il flusso creativo dei Talknoise arriva al Teatro dell’Acquario di Cosenza
di Renata Rossi
foto di Karen Cucci
su piuomenopop.it
Cosenza – 28/10 – Teatro dell’Acquario.
Seguo da tempo i protagonisti della serata di domenica, Massimo Garritano e Ernesto Orrico, e conoscevo già prima dell’altra sera il loro progetto Talknoise, in cui il nome già spiega tanto, un intreccio musicale e sonoro, in cui il rumore creato vuole risvegliare anime e coscienze. Lo spessore dei due artisti è fuori discussione, Massimo è un chitarrista eclettico, capace di spaziare tra generi diversi, dal jazz al blues, alla sperimentazione. Ernesto attore, ma anche autore e regista, è da sempre vicino al mondo della musica ed ha collaborato con diversi musicisti.
Questo progetto ne unisce le due anime, diverse ma complementari, in uno spettacolo difficile e che osa tanto ma che riesce a convincere chi voglia farsi catturare da musica e parole forti e vibranti.
Due anime come due diversi modi di stare sul palco; Massimo in maniera schiva e nascosta lascia che siano le sue note a trasmettere messaggi ed emozioni, Ernesto riempe il palco e lo divora, la forza delle sue parole sta sì nel loro significato, ma soprattutto nelle espressioni del suo volto, nel sali-scendi sonoro della sua voce che ora spaventa, ora fa riflettere, ora lascia senza speranze, ora le crea.
Il suono della chitarra nello spettacolo non è mai semplice accompagnamento alle parole, ma talvolta ne anticipa le emozioni, altre volte le amplifica. Tra i pezzi del disco, perché questo oltre che spettacolo è anche un disco ci sono PPP e Dziga, dedicate rispettivamente a Pier Paolo Pasolini e a Dziga Vertov, personaggi che ci ricordano sempre come l’arte, la poesia, la musica possano avvicinarci alla ricerca di giustizia e verità. Orrico parla di un mondo, e di una realtà, quella calabrese, quasi addormentata, assente, che si culla nei suoi limiti e nelle sue certezze e prova a svegliarsi con la passione travolgente della chitarra di Max. “SE” in un folle alternarsi di periodi ipotetici ci si interroga su improbabili altri modi in cui esistere, altre maschere da indossare, altre sconfitte da fare proprie. Uno spettacolo che non vuole dare risposte ma solo interrogarsi, in cui la musica non utilizza un registro ma mille diversi, in cui le maschere che indossa Ernesto sono quelle che indossiamo nostro malgrado anche noi, in cui i suoi flussi di coscienza riescono a percuoterci fino alle viscere.
Il resto, il potere di musica e parole targate “Talknoise” si può solo scoprirlo ascoltando il disco e, ancor più, assistendo a un loro live dove tutto esce fuori in maniera più intensa e reale.
Rassegna di Talknoise di Ernesto Orrico e Massimo Garritano, Manitù Records, 2018
di Andrea Aguzzi
su neuguitars.com
Talknoise. Nomen est omen. Non sono riuscito a trovare un nome più appropriato per questo progetto gestito e disegnato da Ernesto Orrico alla voce e Massimo Garritano alla chitarra elettrica. Un progetto musicale a metà strada tra teatro, lettura, rumore, poesia, denuncia sociale, satira, commedia, concerto, struttura e improvvisazione.
Una combinazione rapida ed efficace di suoni, rumori, stati d'animo, flussi di coscienza, in cui la voce e la chitarra non si sovrappongono ma si integrano, non combattono, ma lasciano e gestiscono gli spazi in modo perfetto e sincronico. La canzone è stata strappata, violata. La lettura cancellata e coperta dalla chitarra. La chitarra educata, guidata e innescata dalla voce. Il testo. Riferimenti letterali, filosofici. Talknoise è una specie di nuovo pop, molto raffinato, quasi subdolo nel suo caldo, nel suo apparente delirio, nella sua lucida follia, nel suo essere desiderio del 100%.Un ottimo disco. Puoi ascoltarlo tutto d'un fiato, sei colpito dall'energia dei due interpreti, dalla forza dei testi, dalla persuasione della voce, dal contrasto con il suono, dalla rabbia elettrica della chitarra. Questo sul disco. Guardarli sul palco deve essere davvero una forza affascinante.
“Talknoise”, un percorso musicale dalla grande forza espressiva e innovativa
di Paola Abenavoli
su culturalife.it
Un percorso musicale che non è incasellabile in un genere, che rifugge le etichette: e quando l’arte non si può inserire entro confini precisi, ma riesce a superarli, a far dialogare diverse forme espressive, riuscendo nell’intento di coinvolgere, colpire la mente e non lasciare indifferenti, allora si può parlare di arte originale, unica, come la vera arte dovrebbe essere. E le nove tracce che compongono Talknoise rappresentano proprio questo: storie musicali che esplicitamente – come evidenziano le note che accompagnano questo album – non vogliono essere inglobate in una definizione, riuscendo con abilità ad unire la ricerca musicale al teatro, un viaggio tra suoni, improvvisazioni, dissonanze, tra jazz, punk e tanto altro ancora, e l’espressione, il racconto che si esplica attraverso un insieme di spunti, parole, frasi, ricordi, sogni, pensieri, immagini. A costruire questo originalissimo viaggio sono due tra gli artisti calabresi più innovativi: Ernesto Orrico, attore, drammaturgo e regista, con all’attivo progetti importanti tra teatro e musica, nonchè esperienze come cantante in gruppi grunge, punk e metal; e Massimo Garritano, musicista e compositore tra i più interessanti. Insieme hanno già dato vita allo spettacolo di e con Orrico, “La mia idea – Memoria di Joe Zangara”, in cui l’aspetto musicale non è secondario, non è accompagnamento, ma elemento fondamentale nella narrazione. Musica e parole che si uniscono alla perfezione. Proprio come in Talknoise, on line sulle più importanti piattaforme web dallo scorso 21 settembre,prodotto da Manitù records e Zahir.
Brani che indagano, scuotono, riflettono stati d’animo, mostrano l’attualità e si interrogano sul passato (come in “Quasi”), in cui la musica sostiene le parole, in un incontro-scontro che non lascia indifferenti: il surreale si mescola al ricordo, la realtà alla memoria (come in “PPP”, ovvero un brano su Pier Paolo Pasolini, in cui la chitarra di Garritano sottolinea quel dolore rabbioso della perdita, evidenziato dai versi di Ernesto Orrico, o come in “Dziga”, chiaro riferimento a Dziga Vertov, autore di uno dei film sperimentali più belli e innovativi della storia del cinema, “L’uomo con la macchina da presa”, ma che è un parallelo tra passato e presente, tra mondi lontani e quelli più vicini a noi), dove la critica sociale emerge con forza, dove il paradosso serve a rompere schemi o dove l’ironia tagliente induce alla riflessione (ad esempio, ne “La sfortuna di avere un’opinione su tutto”, ma sopratutto in “Cosa sono diventato”, riflesso dell’umanità odierna).
Un percorso unico, originale e incisivo, in cui Orrico mostra la forza dell’autore e dell’attore nell’evidenziare questa narrazione musicale, e Garritano ancora una volta stupisce con la propria creatività artistica.
Un percorso che, dopo una anteprima la scorsa estate al Parco Ecolandia di Reggio Calabria, sarà presentato, in forma di performance breve, il prossimo 7 ottobre, a Belmonte Calabro, nell’ambito di Rifugi d’aria_Border.
A questo link è possibile ascoltare e/o scaricare l’album:
https://open.spotify.com/album/4KJlKmrdgkkGKTIntyhygg
Una generosa apertura europea nella diciannovesima edizione di Primavera dei Teatri
di Claudio Facchinelli
su corrierespettacolo.it
Problematici rapporti familiari e invasività informatica punteggiano gli spettacoli del festival.
Le proposte della meritoria, intrepida iniziativa calabrese, oltre a fornire un prezioso e aggiornato campione della realtà teatrale italiana (e non soltanto), quest’anno in particolare fanno emergere, come fiumi carsici, alcuni degli attuali temi oggetto di dibattito e discussione nella società civile.
Con Essere bugiardo, prodotto da La Corte ospitale / Proxima res / Premio Riccione, regia di Emiliano Masala, la scrittura di Carlo Guasconi affronta con taglio originale i contradittori nodi affettivi che caratterizzano la famiglia. Lui stesso si ritaglia un ruolo in scena, ma è specialmente Massimiliano Speziani (giustamente gratificato dal premio Hystrio) a modulare, in un delicato equilibrio fra apparente realismo e visioni fantastiche, la faticosa elaborazione di un duplice lutto. Nel ruolo dei due ingombranti fantasmi del figlio e della moglie, più veri del vero, oltre a Carlo Guasconi, lo sostiene una spalla d’eccezione: Mariangela Granelli (ma a quando un meritato riconoscimento a quest’attrice, dotata di una straordinaria sensibilità e duttilità?). In questo surreale triangolo Speziani crea, in quel registro minimalista di cui è maestro, un ponte credibile fra il suo personaggio, dolorosamente reale, e le proiezioni della sua fantasia, con le quali intesse un dialogo fatto anche di finzioni e bugie (forse un richiamo alla “menzogna vitale” di Ibsen), probabilmente raccontando anche a se stesso, prima ancora che ai suoi immaginari interlocutori, un passato che non corrisponde al reale. Da segnalare l’originalità dell’impianto scenografico, che ci mostra gli interni familiari come osservati dal dirimpettaio di un anonimo condominio urbano.
I complessi, a volte aggrovigliati rapporti fra genitori e figli, costituiscono il tema di 111, del polacco Tomasz Man, messo in scena dalla compagnia Brandi Orrico. Il lavoro si inserisce in un progetto di respiro europeo, Europe Connection, ospitato per la prima volta da Primavera dei teatri, in collaborazione con Fabula mundi e Playwriting Europe: una residenza che ha visto lavorare insieme proficuamente l’autore, il traduttore (Francesco Annichiarico) e la compagnia.
Con un’impostazione drammaturgica volutamente – quasi provocatoriamente – statica si narra, a quattro voci (Padre, Madre, Figlio e Sorella), l’impossibile sintonia con un figlio, pur atteso e voluto. Sullo sfondo, per contrasto, la presenza dell’ipertrofica, invasiva, illusoria comunicazione digitale, la vicenda, punteggiata di delusioni, durezze, frustrazioni, incomprensioni, giunge inevitabilmente alla cruenta, annunciata tragedia finale.
Allo stesso progetto Europe Connection partecipava il meno lineare Confessioni di un masochista, del praghese Roman Sikora, prodotto da Rossosimona, dove sfugge il dichiarato assunto satirico antigovernativo, soffocato da un’amplificazione sonora multipla, da una cifra recitativa non sempre convincente, spesso sopra le righe.
Ancora meno convincente il terzo titolo del progetto, l’ipertrofico Extremophile, della drammaturga rumena naturalizzata francese Alexandra Bandea, sul quale l’ufficio stampa del festival ha ritenuto doveroso, nei confronti dell’autrice, avvisare che il testo della Badea, messo in scena da Saverio Tavano, è stato modificato sostanzialmente dal regista senza il consenso dell’autrice. A questo proposito sarebbe forse opportuna una riflessione sull’autonomia del regista rispetto all’autore, specie se vivente e contemporaneo. Ma non è questa la sede.
Fra le cose interessanti viste a Castrovillari, c’è sicuramente Amleto Take away, della Compagnia Berardi Casolari. Il riferimento shakespeariano, come illustrato dallo stesso Berardi nella spiritosa, scoppiettante conferenza stampa di presentazione, conclusa con un accorato “Soffro ma sogno”, non è che un pretesto per affrontare una molteplicità di temi: dal rapporto col padre, a Ofelia; ma anche il mondo del lavoro, la civiltà usa e getta; “essere o non essere”, diviene “apparire o non apparire” e, dichiaratamente, “il mercato del teatro, se non hai nuovi testi, ricicla l’usato”. Lo spettacolo è sicuramente la più matura fra le ultime produzioni di Gianfranco Berardi. Armonica la presenza di Gabriella Casolari, compagna di lavoro e di vita, qui nell’umile ma fondamentale ruolo di spalla, quasi servo di scena, che consente a Gianfranco le sue spericolate, pirotecniche esibizioni, incredibili per un artista affetto da cecità – peraltro dichiarata e raccontata nel corso dello spettacolo – ma che lo spettatore neofita è indotto a ritenere una finzione drammaturgica.
Anche La buona educazione, prima assoluta della Piccola Compagnia Dammacco / Teatro di Dionisi conferma il talento di un’attrice di razza: Serena Balivo; già in gonnellino da bimba ne L’inferno e la fanciulla; poi in vesti maschili in Esilio; qui, nel terzo episodio della Trilogia della fine del mondo, è una sprovveduta zitella, maldestramente impegnata nel problematico affido di un nipotino rimasto orfano. Serena sembra, ogni volta, sfidare la sua propria identità di giovane donna, mimetizzandosi in figure di forte impatto teatrale, ma lontane anni luce dai modelli che animano i sogni di tante ragazzine, aspiranti donne di spettacolo, drogate dal piccolo schermo. Anche in questo spettacolo emergono i due temi ricorrenti nel festival: una genitorialità, ancorché straniata e stranita e, sullo sfondo, la presenza invasiva di internet. La vicenda anche qui si direbbe sospesa fra realtà e sogno, tutta nella mente della protagonista. Una sottile ironia pervade i suoi goffi tentativi, disastrosamente falliti, di assumere un ruolo genitoriale ed educativo; complice una scenografia che richiama un magazzino di rigattiere, un bric-à-brac che affastella mobili d’antan, composizioni kitsch e oggetti di ogni tipo, unificati da un gusto per l’horror vacui.
Daniele Aureli, autore interprete e regista di Teoria del Cracker (o della vita puttana), della Compagnia Teatrale Occhisulmondo, in un monologo ambizioso nell’assunto, denso di originali suggestioni figurative e drammaturgiche, dà vita a una pluralità di personaggi. L’assenza di scenografia è compensata da una forte intensità attorale, e da efficaci espedienti quali la invadente, farinosa polvere bianca di cui sono intrisi gli abiti, un sapiente utilizzo della luce. Forse non sempre trasparente la fabula, anche per la sua originalità e complessità, che richiede nello spettatore un certo sforzo, ma sicuramente un’operazione teatrale da incoraggiare e sostenere, meritatamente insignita del Premio Sandro Cappelletto.
La rassegna si è conclusa con Overload, di Sotterraneo, un collettivo fiorentino di ricerca costituito da una dozzina d’anni, già presente in passato a Primavera dei teatri. Il tema era l’evoluzione dell’attenzione umana nella società digitale, con l’obiettivo dichiarato di “riprodurre in teatro i meccanismi della infosfera, il sovraccarico di stimoli, la riduzione della soglia di attenzione, le continue associazioni tra cose distanti, in una rincorsa quasi tossica ai contenuti”. Il risultato spettacolare è un oggetto magmatico, ipercinetico, sovrabbondante, ma con un ritmo incalzante; forse con un eccesso di falsi finali, ma sostenuto da una coerente e intelligente progettazione drammaturgica che, a dispetto della pretesa serietà dell’assunto critico nei confronti della dilagante civiltà digitale, risulta irresistibilmente godibile.
Col progetto Primavera Kids Scena Verticale ha recuperato, ormai da tre anni, l’antica vocazione didattico-pedagogica del teatro ragazzi. Il diario di Adamo ed Eva, diretto da Dario De Luca, è un’operina delicata e accattivante che, anche grazie anche alla presenza scenica a un tempo tenera e maliziosa della giovane Elisabetta Raimondi Lucchetti, vince la scommessa di raccontare ai bimbi l’eterna guerra dei sessi, ispirata allo spiritoso e – per l’epoca – scandaloso testo di Mark Twain. Originale nell’utilizzo della forma della narrazione coniugata col teatro di figura anche Amore love Psiche, di e con Anna Calarco, con la regia di Gaetano Tramontana.
Nell’impossibilità di riferire su tutti gli spettacoli proposti, mi limito, in chiusura, a un veloce giro d’orizzonte, necessariamente incompleto
Generosa, muscolare la prestazione attorale di Michele Maccagno in Eracle, di Teatro di Borgia, che Maurizio Sinisi ha tratto dalla tragedia di Euripide, ricavandone una parabola tragica che, nella sua apparente banalità, partendo da un banale malinteso, conduce alla rovina il protagonista, fino all’omicidio/suicidio, passando attraverso i temi del consumismo, della dipendenza informatica, e di altri feticci della civiltà contemporanea. Stralunate e raggelanti le aforistiche banalità di Quotidiana.com con Episodi di assenza 1. Prima che arrivi l’eternità – scienza vs religione, declinate da un cast ampliato rispetto alle precedetti produzioni della compagnia, anche con intermezzi coreutici. Calcinculo, proposto da Babilonia Teatro è un indiavolato bailamme satirico, una sorta di macabra, gioiosa danza sulle macerie. Spiritosa ma superficiale la riflessione intergenerazionale sui rapporti sentimentali di Intimità, della giovane compagnia Amor vacui. Con Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi? di Fortebraccio Teatro, Roberto Latini rivisita i Sei personaggi con un raffinato gioco teatrale affidato al promettente PierGiuseppe Di Tanno; ma il senso profondo dell’operazione, pur di indubbio fascino spettacolare, sfugge a chi non abbia una conoscenza puntuale delle implicazioni, anche filosofiche, di quel testo fascinoso e inquietante.
In un panorama così ricco e variegato, c’è da riconoscere che, dopo quasi vent’anni, Primavera dei Teatri ha ancora voglia di crescere.
Claudio Facchinelli
Primavera dei teatri
Nuovi linguaggi della scena contemporanea
Castrovillari
27 maggio / 2 giugno 2018
XIX edizione
Apri articolo on line
Da Castrovillari, 111, del drammaturgo di origini polacche Tomasz Man
di Letizia Laezza
su network lettera 22
Si chiama progetto Europe connection in collaborazione con fabulamundi ed è il presupposto per comprendere l’interesse peculiare dello spettacolo 111.
La prima va in scena il 30 maggio 2018 nel contesto del festival primavera dei teatri di Castrovillari, dopo una lunga e articolata gestazione della pièce.
Con e per la regia di Emilia Brandi, prende forma un testo di Tomasz Man, drammaturgo di origini polacche.
111 è un racconto di difficoltà ed incomprensioni familiari, esasperate all’estremo dramma irreversibile, ma, per quanto ogni nucleo famiglia possa scegliere a quale livello della tragedia fermarsi, ogni individuo appartenete ad un nucleo famiglia può riconoscere in qualche tratto della storia il proprio disagio del non capire e del non riuscire a farsi capire.
Quattro attori aprono lo spettacolo e restano per tutta la sua durata tendenzialmente ai propri posti: ognuno ingessato nel proprio ruolo, mancante di alcuna flessibilità nello spazio e nelle relazioni; ognuno a guardare le cose unicamente dal proprio angolo di palco.
Strumentale la scelta dei costumi, di Rita Zangari, che presenta l’essenza dei singoli e poi del gruppo già nella fotografia iniziale: la madre, interpretata dalla stessa Emilia Brandi, in vestaglia di un convenzionale rosa tenue; il padre, Ernesto Orrico, in tuta celeste, come è giusto che vestano i maschietti, e la figlia, Ada Roncone, nel tepore dell’accappatoio, nell’intimità della sua casa, delle sue cose, tutte sul tavolo intorno a lei, oggetti di una quotidianità personale che vuole offrire al pubblico, dalla sua posizione erta su di un tavolo a centro palco, dove vive, osserva e domina le azioni banali di una qualsiasi famiglia. Provata dall’incomprensione.
Una qualsiasi famiglia occidentale.
Una qualsiasi famiglia che sbaglia suo malgrado, composta di persone magari non cattive ma che non capiscono cosa fare per fare bene.
Al centro delle relazioni, dalla sua prospettiva, la figlia che filtra la vicenda è il simbolo stesso della mediazione dei complicati rapporti fra i genitori e il figlio, Marco Aiello, scenicamente come semanticamente chiuso nella sua tinozza.
La vittima senza nome, l’irrequieto, l’unico che si muove nella stanza ma che pare in gabbia.
Un ragazzo difficile, eppure un creativo; dagli istinti pericolosamente violenti, eppure capace di sviluppare affetti viscerali; un ragazzo che comunica in una maniera tutta personale ma che non è in grado di farsi capire. Un ragazzo che la famiglia non riesce a comprendere, arginare, gestire: ci prova, si sforza, ma poi si esaspera, e poi si esasperano tutti, e si litiga, si corre, si urla, ci si agita, si piange, e mai si risolve nulla.
Immagine emblematica, come tigre allo zoo, il ragazzo si incastra sotto il tavolo della sorella: cerca una via di fuga, ma gli è difficile, come a tutti gli altri.
Le luci di Antonio Giocondo collaborano efficacemente allo scandirsi dei momenti della vicenda; il ritmo della recitazione segue il flusso del racconto con una metrica incessante, tendente alla claustrofobia. Non si sfugge alle faccende della famiglia. È il ritmo della famiglia. È il ritmo di chi crede di fare le cose buone e le ripete fino allo strenuo, fino all’esaurimento delle forze, dell’altro, dei risultati.
Lo spettacolo vuole essere universale come i topoi che lo attraversano; la comunicazione oltre le parole, nell’analisi dell’umano che appartiene a tutti.
Perché non solo la famiglia media italiana o meridionale possa riconoscere le proprie mancanze e difficoltà, ma perché l’intera famiglia europea si ritrovi in un quadro delle dinamiche della famiglia media, perché lo spettacolo tenda all’universale senza snaturare le origini della sua scrittura; per rispettare questi parametri è venuto su lentamente, si è formato, si è scoperto, si è studiato, in un lavoro che ha goduto della consulenza e supervisione di Katia Ippaso, drammaturga e critica.
Scopo del progetto Europe connection – playwriting Europe quello di creare una rete, di fare contatto, di mettere in comunicazione e quindi a confronto diverse figure di operatori nell’ambito dello spettacolo da tutta Europa. l’Europa come comunità produce arte in tante singole realtà sconosciute fra loro, il che appare limitante sotto diversi aspetti, a partire da quello dello scambio reciproco. Così il festival di Castrovillari si fa sede di proposta ed incontro e accoglie un trio di pièce dalle diverse origini: oltre 111, Confessioni di un masochista di Roman Sikora e Extremophile di Alexandra Badea, in un minicircuito che avvicina arte, pubblico ed artisti.
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L'esordio da regista di Emilia Brandi con lo spettacolo "111"
È tratto da un'opera di Tomasz Man che e vede in scena i talentuosi attori calabresi Marco Aiello, Ernesto Orrico e Ada Roncone
di Arcangelo Badolati
su Gazzetta del sud
Un' attrice capace d' interpretare qualsiasi personaggio: eclettica, affabulante, passionale, intelligente. Una donna cresciuta con la passione del teatro. Una passione che ha coltivato frequentando le compagnie italiane più innovative. Un' attrice che è diventata adesso regista. Un esperimento felicemente riuscito che segna un importante passo in avanti nella cultura teatrale calabrese. Lei si chiama Emilia Brandi e guida una pattuglia di attori nella interpretazione di "111". Si tratta di un' opera di Tomasz Manche che vede sul palco la stessa Brandi insieme con Marco Aiello, Ernesto Orrico e Ada Roncone, tre talenti del mondo attoriale italiano chiamati ad una prova non facile. Già, perché "111" è una tragedia sulla disumanizzazione e la violenza insite in una dimensione familiare, in cui è decisiva, quanto inconsapevole, la mancanza di reale comunicazione e l' incapacità di rispondere in maniera coerente alle reciproche necessità fisiche ed emotive. Attraverso un apparente dialogo tra le quattro figure, si dipinge un quadro piuttosto cupo e chiaramente doloroso, in cui Madre e Padre, in maniera diversa e complementare, contribuiscono con le loro convenzioni, ossessioni e tradizioni ai cortocircuiti esistenziali dei figli. Il punto focale è la vita del Figlio, smarrito tra diversi possibili sviluppi come individuo, e incapace di legarsi convintamente a qualsiasi essere umano, neanche a quelli a lui più prossimi. La sua insofferenza e il suo odio hanno una crescita lenta e inesorabile, che neppure l' apporto emotivo e la parziale comprensione della Sorella sono sufficienti a frenare. Il punto di vista in questa messinscena del testo di Tomasz Man, è quello di chi resta e, con lo sguardo perturbato dalla tragedia, si ritrova confinato in una terra di mezzo tra i pesanti frammenti della memoria e il vuoto del presente. Lo spettacolo curato da Emilia Brandi conta sulle musiche originali di Massimo Palermo ed i costumi di Rita Zangari. "111" è prodotto dall' associazione culturale Zahir e da Primavera dei Teatri, con il sostegno del Teatro Auditorium UniCal (Università della Calabria) e del Comune di Rende. Se volessimo parafrasare Francis Scott Fitzgerald potremmo parlare davvero di una "grande scommessa vinta" dal sempre più creativo teatro calabrese.
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Journal: Tomasz Man in Italy for "111"
su Fabulamundi. Playwriting Europe
Tomasz Man was in Castrovillari for an artistic residence focused on his text “111”, with the Italian company Zahir. On June the text will be presented at the Festival Primavera dei Teatri.
Here we publish the journal of the author about his experience.
My residence in Cosenza was amazing. I met a very professional and prepared team to work with on my play “111”. I was there for a week. Every day there was a rehearsal that took place in the Auditorium theater. The rehearsals were of about four hours. The actors went through the lines of the text reading it both in Italian and English. We checked whether a given word or phrase fit the situation. How does this word work translated into Italian? For example, in Poland, ambers are very common by the sea and can be found on the beach. In Italy, there are no ambers. So we changed with another stone. It was a great experience because, sometimes, living in one culture, we do not realize that there are small things that may be completely incompatible with another culture. I also remember that we were talking about sharing wafer on Christmas Eve. In Poland, this is an eternal tradition that in Italy doesn’t even exist. Always in the play, at a certain point, behind the window at school, the son sees rowans that are not popular in Italy. And so we changed it into an olive tree. In Poland, there was a popular festival in Sopot. In Italy, it is widely unknown. We turned it into the Sanremo Festival. On the last day, the director and actress asked me to lead a workshop on my text. I conducted workshops based on the work of the actor’s imagination with the internal image of the given stage situation. In addition, I led exercises based on changes in rhythm and mood. I played the guitar showing how important it is for the actor’s interpretation of the music and its character, tempo, intensity. With Emilia, Rita, Marco and Ernesto, we have created a real group of people who really want to do something interesting on stage. These are precious occasions for the actors and their training, the chance to work with high sensitivity and curiosity, very friendly and incredibly open which meant that actually after this week I did not feel the language barrier at all because we already communicated without unnecessary words. We spoke English but we’ve learned from our native Polish and Italian languages as well. This is one side of the residence directly related to my text. The other side is about getting to know the theater environment in Cosenza and the work of Scena Verticale. I had the chance to watch great performances, find out how the theater in Italy works and, on the other hand, share my knowledge about Polish theater. Everyone was very hospitable and friendly. I also visited the city and the museum thanks to them. I spent a very intense time working on the text and a great time learning about the Cosenza culture and the surrounding area. I take home with me a great experience and I can’t wait to return to Primavera dei Teatri Festival in Castrovillari. I wanted to thank you for allowing me to go to Cosenza. I feel wiser thanks to this artistic and social experience.
N 2 / APRILE - giugno 2017
Joe Zangara, L' uomo che sparò a Roosvelt
di Paola Abenavoli
su Hystrio - Trimestrale di teatro e spettacolo
La povertà, l'emigrazione, l'avversione per ogni disuguaglianza sociale ed economica, la voglia di conoscere e vivere, nonostante un male fisico che forse è male interiore. Una vita cercando qualcosa. Quella di Giuseppe Zangara, divenuto Joe quando decide di varcare l'oceano, come aveva fatto il padre, partendo dalla provincia di Reggio Calabria. Quella vita che cambierà quando deciderà di sperare al presidente Roosvelt, che riteneva fosse il simbolo del capitalismo che aborriva. Fu condannato alla sedia elettrica, nel 1933, a 33 anni. Una storia vera che l'attore e regista Ernesto Orrico riporta alla luce, prendendo spunto dal libro di Blaise Picchi, che contiene il memoriale di Zangara. Ma la messa in scena non è volutamente una ricerca filologica, è una storia umana. Orrico, con la sua forza espressiva, diventa l'uomo Zangara. E lo fa costruendo sapientemente un testo che ci porta nel suo percorso tra la provincia italiana d'inizio Novecento e l'America roosveltiana, facendoci entrare nelle atmosfere dell'Italia rurale e della vita dei migranti, grazie anche a un ricercato studio sul linguaggio. E poi la musica: elemento che, con intensità, si interseca alla perfezione con la storia e che, grazie all'intensa performance di Massimo Garritano, trasporta lo spettatore nel viaggio dalla Calabria all'America, con l'utilizzo del bouzouki, che rimanda a sonorità magnogreche, e del dobro, chitarra tipica degli anni Venti, suonata come una lira. Una riuscita sinergica tra musica e interpretazione, che diventano percorso umano.
Mendicino, fulmineo e sinestetico “La mia idea. Memoria di Joe Zangara” di Ernesto Orrico
di Rita Pellicori
su Ottoetrenta
Avete presente quando una storia vi entra dentro e non vuole più uscire? Succede di rimuginare, cercare alternative, soluzioni plausibili e meno dolorose. Questo è quello che si sente dopo aver assistito a “La mia idea. Memoria di Joe Zangara”, lo spettacolo di e con Ernesto Orrico andato in scena ieri sera presso il teatro comunale di Mendicino. Povertà, curiosità, emigrazione, avversione per un governo capitalista, un dolore fisico pari a spine che macinano lo stomaco e l’anima. L’eterna ricerca di qualcosa colora la vita di Giuseppe Zangara, l’uomo originario di Ferruzzano sbarcato negli Stati Uniti per vivere quel sogno americano come avevano fatto il padre e le migliaia di migranti prima di lui. Giuseppe, divenuto Joe negli Stati Uniti, è figlio della povertà, di un padre-padrone che lo riempie di botte e lo considera né più né meno che un animale da soma; una “capo tosta” che impara a leggere una parola al giorno, un uomo che cerca di cambiare il sistema il 15 febbraio del 1933 quando attenta alla vita del presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt. Vittima e carnefice di uno Stato capitalista che assicura il benessere e l’istruzione solo ai ricchi- come più volte ricorda-, la vita di un uomo che avrebbe potuto cambiare la storia si spegne sulla sedia elettrica il 20 marzo del 1933. Ispirato a “L’uomo che avrebbe voluto uccidere FDR” curato da Blaise Picchi, Ernesto Orrico porta in scena una storia dolente, la vita di un uomo alla ricerca di un riscatto e di un amore che sfuggono inesorabilmente e conducono a un esito tragico. Ernesto è discreto, passionale, fulmineo, tesse una trama sinestetica di una lingua italiana ibridata da intercalari americani facendoci entrare nella vita dei migranti e visitare luoghi a noi sconosciuti. joe zangara2Poi c’è la musica, una musica che non stanca e si intreccia in modo perfetto con la storia grazie alla performance di Massimo Garritano. Una perfetta sinergia tra musica e interpretazione che si è guadagnata a pieno titolo lo scrosciante applauso del pubblico. Si può soffrire per quello che è stato? Forse sì.
Face fest, Orrico e Garritano raccontano la storia di Joè Zangara, il calabrese che tentò di uccidere il presidente Roosvelt
di Gabriella Lax
su LAXSTYLE
“Ho sempre sofferto per lo stomaco e per i capitalisti in vita mia”. Dolore fisico che si mescola ad una sorta di ossessivo desiderio di giustizia. La vita di Joè Zangara, immigrato in America dalla Calabria, è l’ultimo lavoro dell’attore cosentino Ernesto Orrico, in scena ieri sera nel parco di Ecolandia al “Face festival” a Reggio Calabria, con “La mia idea. Memoria di Joe Zangara”, e le musiche originali eseguite dal vivo da Massimo Garritano. Una recitazione che si nutre di un linguaggio ibrido, americano, dialetto della provincia reggina, scelto da Orrico senza tante sottigliezze, senza un’indagine specifica ma ciò che legge lo spettatore è la realtà come semplice narrazione dei fatti dall’inizio del secolo fino al 1933. Un memoriale ritrovato alla fine di un libro che racconta la storia vera di Joè, Giuseppe, (“Nato a Ferruzzano, vicino all’Aspromonte, in Italia va”) che perde la madre a soli due anni e cresce con un padre che lo maltratta elo umilia mentre, piuttosto che farlo andare a scuola, lo vuole con sé a lavorare nei campi. E il mal di stomaco che lo accompagnerà nella sua breve vita e tormentata esistenza comincia da quel momento a prendere forma. Un memoriale di cui la fonte non è certa. “Si tratta di un manoscritto ribattuto dagli operatori del carcere in cui Zangara fu rinchiuso prima di essere condannato? Oppure sono dichiarazioni raccolte dal direttore del carcere o uno scritto di Zangara originale?” si interroga l’autore.jo zangara Alla terza recita Orrico porta in scena una narrazione in prima persona, riscrittura e scrittura di pezzi d’invenzione ma che sono coerenti all’originale ed al contesto storico. Da qui i riferimenti all’anarchia e all’anarchismo, al fascismo. Zangara è un uomo semplice, non fa voli pindarici intellettivi, ha imparato a leggere e scrivere da autodidatta, nella vita ha zappato ed ha costruito case. “Un’ossessione contro i potenti, i capitalisti, il governo che non si interessa dei poveri”, coltivata fino all’esasperazione. Il fallimento di una vita occupata a lavorare ed a consumare in fretta i soldi dalle tasche in giro per l’America. Joè ricorda che già in Italia aveva pensato di uccidere il re Vittorio Emanuele (non vi sono in realtà tracce storiche di questo tentativo. L’idea salvifica è fare un attentato contro il presidente degli Stati Uniti Franklyn Delano Roosevelt. Spara Joè ma a morire sarà solo il sindaco di Chicago ed il “premio”per lui sarà la sedia elettrica. Un viaggio variegato dai campi della Calabria, alle industrie di seta di Paterson, fino al caldo torrido di Miami, percorso insieme a bouzuchi e il dobro, strumenti del fedele Garritano. Una sinergia artistica, tra l’attore ed il musicista che, dopo anni, si è concretizzata lo scorso marzo. Un lavoro intenso di dialogo serrato e commento in musica. “Come se ci fosse un altro Zangara – spiega l’autore – che, IMG_7426 copia.jpgattraverso il suono, ripercorre dolore, pensieri e patimenti”. “Una scrittura che rivisita piccoli frammenti di musica americana – aggiunge Garritano (impegnato nella promozione del disco da solista “Present”)– per dare collocazione geografica e temporale. Due strumenti, timbricamente collocabili, uno tipicamente mediterraneo e l’altro tipicamente americano, che sottolineano le due location, Calabria e Stati Uniti”. Ad Ernesto Orrico, ancora una volta, grazie al teatro di narrazione semplice, il merito di avere sollevato la polvere del tempo, di avere ripescato frammenti di storia che portano alla ricostruzione del puzzle di amarezza, difficoltà, sangue e sudore dei calabresi nel mondo. Zangara non realizza il sogno americano e perisce a causa del suo forte disagio esistenziale. Da spettatori ci piace immaginare che, solo allora, forse, il suo terribile mal di pancia abbia smesso di tormentarlo.
Calabria, il teatro è abbandonato a se stesso: ma c'è chi resiste
di Tommaso Chimenti
su Il Fatto Quotidiano.it
La Calabria soffre più di altre regioni del Meridione di “malattie” come abbandono, lontananza, disaffezione, negligenza, disinteresse. Le difficoltà, teatralmente parlando, e la situazione dell’arte e della cultura è cartina di tornasole per riuscire a capire meglio quello che accade anche in altri ambiti, sono rilevanti e riflettono lo stato delle cose, la mancanza di opportunità, di una visione a lungo termine, di una progettazione unitaria, di un’idea difuturo in una regione dove i giovani, anche gli attori, se ne vanno.Qualcuno che tenta, che lotta, che resiste c’è. Dal basso piccoli tentativi fanno capolino, continuando comunque a scontrarsi contro muri di gomma. Che il teatro possa essere comunità e territorio, possa rinsaldare valori e cementare la società civile, anche e soprattutto nei piccoli comuni, è cosa nota. Se parli di Calabria vengono in mente il festival quasi ventennale “Primavera dei Teatri” a Castrovillari e del frontman Saverio La Ruina, Peppino Mazzotta, ma identificato dopo l’esperienza del Commissario Montalbano con la Sicilia, i fratelli Cauteruccio, Giancarlo direttore per trent’anni del Teatro Studio di Scandicci, e Fulvio, attore solido del quale ricordiamo il suo “Roccu u stortu”. Un po’ poco.
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La Calabria rimane “schiacciata” tra le grandi tradizioni napoletana e siciliana, e compressa dal forte rilancio negli ultimi quindici anni della Pugliafelix vendoliana. Soltanto quattro le compagnie finanziate dal Fus: a Cosenza Scena Verticale, 100.000 euro,Rosso Simona, 46.000, e il Teatro dell’Acquario, 92.000, a Reggio Calabria il Ctm con 110.000. Adesso un nuovo bando regionale sta facendo molto discutere e tiene in fibrillazione i teatranti dello Stretto: due milioni di euro divisi in tre categorie, gli eventi storicizzati, il circuito, la cultura del libro. Un bando definito da più parti “protezionista” che impone il 40% degli spettacoli calabresi non rilanciando una crescita ma limitando la visuale al proprio orto.
Fino alla scorsa stagione erano nove le residenze, finanziate da 60 a 100.000 euro l’una: Scena Verticale a Castrovillari (gestisce anche il Teatro Morelli a Cosenza), Linea Sottile a Cassano Ionio, Teatro della Ginestra a San Fili, Rosso Simona a Rende, Scenari Visibili di Lamezia (interessante la recente produzione “Patres”), Officine Teatrali a Soverato, Teatro del Carro a Badolato, Compagnia Dracma a Polistena, Scena Nuda a Reggio. Uno dei problemi può essere l’assenza di scuole (unica quella al Morelli di Scena Verticale), drammaturgiche e attoriali, che “spopolano” la Calabria di potenziali talenti che si spostano a Roma o nelle grandi strutture del nord e senza laboratori la fucina delle compagnie, dei teatri, delle attività s’inaridisce.
Il teatro invece è bisogno, crea dipendenza, consapevolezza, salvaguardia, cultura, lettura, benessere, civiltà. Senza teatro la qualità della vita peggiora. Negli anni ’90 due esperienze di accademie, Palmi e l’Acquario, o i laboratori tenuti da Eugenio Barba per quasi un decennio a Scilla, hanno formato la generazione di attori oggi attivi sul territorio o che se ne sono andati altrove per lavorare sulla scena, insieme all’apertura del primo distaccamento del Dams a Cosenza, dopo quella fortunata di Bologna. Poi è sceso un velo nel quale alcune illuminate situazioni che lavorano con fatica cercano di squarciare isolamento e marginalità.
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Oltre alle già citate, è da salutare l’impegno dei “Coltivatori di Musica”,Paola Scialis e Stefano Cuzzocrea (loro la performance Resistenza Gastrofonica Viaggiante facendo tra teatro di strada e gnocchi, che li avvicina idealmente alle Ariette), che all’interno dell’Ex Convento dei Cappuccini di Belmonte e della chiesetta (dove Brunori ha inciso il suo ultimo album) hanno lanciato la prima edizione del “Primo maggio del Lavoro”. Tra i tre finalisti, dopo selezione su progetto, Gruppo della Creta, Tamara Marino e Scenari d’Aprile, hanno ottenuto la possibilità di una settimana di residenza artistica ad ottobre quelli della Creta con il lavoro “Dante. Le cose oltre il sipario della materia” che indaga su numerologia, cabala, magia ed esoterismo che affiora potente tra gli endecasillabi del Sommo nella Commedia. Molto interessante la mise en espace dell’esperto Ernesto Orrico “La mia idea” (al bouzouki e dobro l’intenso chitarrista Massimo Garritano, è appena uscito il suo cd “Present”), ritratto interiore partecipato di Joe Zangara emigrante calabrese che sparò a Roosevelt, condannato alla sedia elettrica. Un racconto vivido tra italiano, calabrese e slang inglese di strada, anticapitalista, dalla parte degli ultimi e degli sfruttati, una lotta di giustizia e uguaglianza con sullo sfondo il conflitto con un padre autoritario e violento e un mal di stomaco che non se ne vuole andare. Il Primo Maggio a Belmonte ha ricordato gli “scioperi a rovescio” di Danilo Dolci, in cui i disoccupati (in ambito teatrale sono molti quelli che lavorano senza essere pagati) si mettevano al lavoro. Una protesta pacifica. E dolce, appunto. Se lavorare stanca, non lavorare ancora di più.
Briganti o eroi popolari? Va in scena “Jennu brigannu”
di Gabriella Lax
su Cronache del Garantista, Reggio Calabria
I briganti, fuorilegge o eroi popolari? Punti di vista, storie di banditi famosi nella Calabria di fine Ottocento e degli anni successivi, e vicende di uomini comuni, imbastarditi dalla miseria, costretti a delinquere. Visioni e racconti spinti fino alla più stringente attualità. “Jennu brigannu” (letteralmente: “andando in giro ad attaccare briga”) va in scena a Spazio Teatro sabato sera (con replica ieri pomeriggio). Lo spettacolo scritto dalla reggina Vincenza Costantino e interpretato da Manolo Muio ed Ernesto Orrico (che ne cura la regia) torna, riproposto in una nuova veste, nella città dello Stretto esattamente dopo dieci anni dal debutto, nella prima versione, al teatro Siracusa, originaria produzione del “Teatro della Ginestra”. Due attori sul palco, al posto dei quattro, ma la storia dell'Italia, la storia dei suoi falsi miti, rimane la stessa. Arricchita, tra italiano e dialetto cosentino, da nuovi particolari, ridisegnata dall'attualità. Due personaggi in cerca di risposte, amici al bar, pronti a convergere con le opinioni o a discutere, anche con le mani in faccia, sempre davanti ad un bicchiere di vino. Profetizzando “Rivoluzioni” che innestano le radici in quelle storiche precedenti, ma che si perdono in chiacchiere da bancone, facendo salti nella storia recente del Meridione. Ilare, a metà tra narrazione, fatti storici e dicerie popolari si snocciola il racconto della Costantino. Fotografia della Calabria, terra d'emigrati e di briganti. Dialoghi incalzanti, nelle vesti divertenti e divertite, che lasciano nell'anima un grande punto interrogativo, sulla natura del ritardo atavico del Sud d'Italia.
L'autrice omaggia la scoperta della cultura calabrese con riferimento a Vincenzo Padula (menzionato in scena) per le due lunghe citazioni di “tradimento e prigione” e l'attualissimo “Strade, autostrade, ponti e infrastrutture”, tratte dalle pagine di “Bruzio”. E poi la storia della brigantessa Marianna Oliverio, omicida che lascia tutto per seguire sulle montagne il marito Pietro, originarie dell'autore Nicola Misasi nelle descrizioni di boschi e paesaggi, così come le voci “contro” il brigante Giuseppe Musolino tratte da “Il gran bosco d'Italia” e “In magna Sila”. Tra le fonti storiche, il riferimento a Garibaldi è tratto da un'interpellanza parlamentare di angelo Manna del 4 marzo 1991. “Un teatro di repertorio – precisa a fine spettacolo, nel dialogo col pubblico, Orrico – un teatro che ci fa divertire ancora,per questo lo riproponiamo”.
E' Aldo Valenti il fotografo protagonista de “Linee d'entrata”, una serie di esposizioni fotografiche in concomitanza con le date della stagione teatrale, presentate all'ingresso della sala Spazio Teatro. Valenti con le immagini di “Richiami di memoria” ed il suo studio su “Le serve”, uno spettacolo che Spazio Teatro ha ospitato sette anni fa, nel marzo del 2009 la Compagnia del Teatro Argomm di Milano guidata da Francesco Mazza giunge a SpazioTeatro ospite della rassegna “Zattere”.
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I 10 anni di “Jennu brigannu”: la forza di un testo e di una messa in scena
di Paola Abenavoli
su Cultural life
Dalla storia all’oggi: un percorso che ogni opera d’arte dovrebbe compiere – o aiutare a compiere – per guardare il presente nel tentativo di comprenderlo.
Dalla storia – e i racconti – del brigantaggio, dalla storia della Calabria di ieri, a quella di oggi. Da un’emigrazione fondata sulla fuga per paura o per miseria, a quella di oggi, fondata forse sulla speranza, sulla voglia di emergere: ma, alla fine, per tutti, quella terra sembra lontana, e quelle case, per la cui costruzione si è lavorato e combattuto, sembrano solo sfondi di bellissimi e tormentati luoghi.
“Jennu brigannu”, a dieci anni esatti dalla prima rappresentazione in riva allo Stretto, è diventato, nel tempo, qualcosa di più di uno spettacolo teatrale: è un viaggio nell’intimo del calabrese, del suo essere, di una terra, di un popolo; un viaggio che si alimenta, si evolve, assume ulteriormente un valore importante, tra memoria, testimonianza e riflessione. Il testo di Vincenza Costantino evidenzia sempre più la sua capacità di essere universale, per il suo saper fotografare anche l’oggi, attraverso un rimando tra situazioni contemporanee e storia (in un’indagine “delle cause esistenziali – come afferma, nell’introduzione al testo, Natale Filice – del continuum della calabresità”, secondo un criterio in cui un tempo, appunto, si frappone all’altro, e, dunque, “non vi è passato da cui trarre insegnamento nè futuro su cui investire nel presente”). E, in questo, la nuova versione scenica firmata da Ernesto Orrico e andata in scena nell’ambito della stagione di SpazioTeatro (che proprio dieci anni fa aveva ospitato la prima dello spettacolo) gioca un ruolo importante nel dare ulteriore linfa ad una riflessione che gioca anche con il sorriso e la risata amara, che sottendono una drammaturgia poetica e profonda. Proprio il rimando continuo tra passato e presente (e quello tra dialetto e lingua) che i due attori (lo stesso Orrico e Manolo Muoio) compiono, trasformandosi da briganti che narrano la loro storia o quelle di altri personaggi dell’epoca, in uomini del presente alla ricerca di una identità, diventa il punto attorno al quale si snoda, sul palcoscenico, lo spettacolo: brevi racconti, brevi scene, dialoghi intensi, ricchi ma mai verbosi, danno ritmo e coinvolgimento, così come le straordinarie interpretazioni di Orrico e Muoio, calati dentro i personaggi senza mai soverchiarli, ma incarnandoli con quella completezza e naturalezza che è propria di chi ha costruito negli anni i personaggi stessi. E’ un viaggio, quello di “Jennu brigannu” e degli spettatori, che scorre ma non passa via; che attraversa chi lo ascolta; che, tra un sorriso e una scoperta, induce a guardare dentro e attorno a noi. Induce a chiederci, come fanno i due protagonisti sul finale, dove siano andati tutti, cosa sia rimasto della Calabria, se il suo cuore sia ancora tra le case vuote, se la terra si sia “dimenticata di essere terra”.
A SpazioTeatro tra emigranti e briganti
di Aurelia Arito
su Zoomsud.it
Sono storie di Calabria, storie di briganti, anime ribelli assetate di libertà e giustizia o semplicemente banditi, fuorilegge che delinquono per sfuggire alla fame o ai soprusi dei padroni. Sono frammenti di tante storie – come molteplici sono quelle che riguardano il tema del brigantaggio in Calabria - quelli portate in scena a SpazioTeatro con lo spettacolo “Jennu Brigannu – storie di briganti calabresi” che ci conducono a riflettere sullo ciò che siamo stati, su ciò che siamo e saremo.
Sono chiacchiere da bar, talvolta sconnesse, ironiche o profonde, come fossero brevi flash che restituiscono l'immagine di una Calabria umiliata ed a tinte fosche, quelle dei due protagonisti dello spettacolo, scritto dall'autrice reggina Vincenza Costantino, straordinariamente interpretati da Ernesto Orrico (che ne è anche regista) e Manolo Muoio. Voci polifoniche di tanti uomini le cui storie personali si mescolano con la grande storia dell'Unità d'Italia. Due uomini che dialogano di brigantaggio in Calabria, accennando alle storie di protagonisti più o meno noti dell'epoca combinandoli all'attualità dei nostri tempi.
Sono storie di Calabria, storie di briganti, anime ribelli assetate di libertà e giustizia o semplicemente banditi, fuorilegge che delinquono per sfuggire alla fame o ai soprusi dei padroni. Sono frammenti di tante storie – come molteplici sono quelle che riguardano il tema del brigantaggio in Calabria - quelli portate in scena a SpazioTeatro con lo spettacolo “Jennu Brigannu – storie di briganti calabresi” che ci conducono a riflettere sullo ciò che siamo stati, su ciò che siamo e saremo.
Sono chiacchiere da bar, talvolta sconnesse, ironiche o profonde, come fossero brevi flash che restituiscono l'immagine di una Calabria umiliata ed a tinte fosche, quelle dei due protagonisti dello spettacolo, scritto dall'autrice reggina Vincenza Costantino, straordinariamente interpretati da Ernesto Orrico (che ne è anche regista) e Manolo Muoio. Voci polifoniche di tanti uomini le cui storie personali si mescolano con la grande storia dell'Unità d'Italia. Due uomini che dialogano di brigantaggio in Calabria, accennando alle storie di protagonisti più o meno noti dell'epoca combinandoli all'attualità dei nostri tempi.
Un viaggio che dal racconto di una Calabria «terra traditura», in cui «non ti puoi fidare di nessuno» e la rivoluzione la puoi solo sognare, arriva all'oggi, all'attualità di una nuova politica, di nuovi “traditori” - con tanto di nomi e cognomi dei politici calabresi coinvolti in recenti inchieste - e vecchie e nuove emigrazioni, desideri di fuga dalla fame in un territorio condannato all'isolamento e ancora oggi voglia di rivalsa e affermazione personale. «Dove sono andati tutti?», chiede uno dei protagonisti. Il riferimento è ai tanti calabresi senza Calabria, costretti a «scegliere il destino di andarsene emigranti o restare briganti». Ieri emarginati che hanno lasciato la Calabria per il Canada o l'Argentina per sfuggire alla povertà, oggi sempre più laureati e professionisti alla ricerca di una identità.
Nel testo della Costantino, frutto di un lavoro di ricerca tra fonti storiche, letterarie e racconti familiari, si tratteggia – sospendendo giudizi di valore e mostrando le voci a favore e contro il brigantaggio – la storia di tanti uomini senza nome che hanno scelto di stare fuori dalla legge e farsi briganti «per seguire un sogno, un ideale, per una vendetta, un motivo d'onore, o solo per sfuggire alla fame».
La rappresentazione di “Jennu Brigannu” a SpazioTeatro rappresenta un ritorno nella città dello Stretto, dopo dieci anni dal primo debutto nel 2006 al teatro Siracusa nell'ambito di una rassegna diretta da Gaetano Tramontanta di SpazioTeatro.
Uno spettacolo longevo, che in dieci anni ha girato l'Italia - arrivando anche a New York nell'ambito della rassegna “In Scena! Italian Theater Festival NY” -, cambiando negli anni produzione (associazione culturale “Zahir”) ed il numero degli interpreti (in origine erano quattro), ma mantenendo la forza della riflessione sull'essere calabresi, sulle ragioni di ritardi e peccati originari che ci conduce a riflettere sul presente della Calabria. Racconti che mettono insieme storia e leggenda.